Rocca Altiera e Bellaveduta, il balcone più spettacolare sulle montagne proibite del parco


Quella che vado a raccontare è la storia di una giornata perfetta, semplice, composta degli elementi fondamentali per farla diventare indimenticabile. Un territorio isolato, dimenticato quasi, al di la dei sentieri battuti e amati dal popolo della montagna, scenari comunque imponenti e per certi versi unici che più in la col racconto dettaglierò; poche pretese se non quelle di andare a conoscere uno spicchio di montagna finora poco frequentato, 2 vette quasi sconosciute, una giornata da annali storici per la sconfinata quiete e la mitezza del clima che ci hanno accompagnato dall’inizio alla fine del percorso, mille metri di dislivello comunque da affrontare per poter appagare quell’intimo desiderio di conquista ed un amico con cui condividere il tutto. Non agitare, prendere con moderata calma e passione e meravigliarsi di ogni colore, di ogni orizzonte che si scopriva sopra ogni crinale, di ogni attimo vissuto. E gli ingredienti della giornata perfetta sono serviti in questo lembo estremo di autunno indimenticabile. Occorre descrivere prima gli oggetti dei nostri desideri, due montagne annoverate tra i Marsicani, separate drasticamente dal gruppo omonimo dalla valle di Opi e dalla Val Canneto separate da quel lembo di creste condivise tra i Marsicani stessi e le Mainarde che vanno dal Balzo della Chiesa e passando dal Petroso arrivano fino alla Meta. Territorio di nessuno, sembrano, comunque inquadrate geograficamente, ma montagne (limitrofe) “lontane” dalle più blasonate vette elencate; sono Rocca Altiera e Cima di Bellaveduta, che insieme alla già conquistata Cima di Serra Materazzo rappresentano forse le montagne meno frequentate del nostro Appennino. Si raggiungono percorrendo la statale Avezzano-Cassino, uscendo in prossimità dell’uscita di San Donato in Val Comino o Picinisco se si preferisce, seguendo i cartelli fino al minuscolo paese di Settefrati. Si oltrepassa il paese, quasi non accorgendosene, e si prende la tortuosa strada per il Santuario della Madonna di Val Canneto; dopo una serie di tornanti, in quello che vira verso la Val Canneto appunto, in prossimità dell’unico ampio spiazzo per parcheggiare a quota 1030 metri, ha inizio il nostro percorso, affatto segnato. Si tratta della località che sulle carte è riportato come Balzo di Canneto. Abbiamo quasi l’impressione di essere davvero i primi ad intraprendere questo sentiero; poche tracce, nessun segnavia; è davvero una territorio fuori dal turismo montano. Sono le 7 e 15 quando prendiamo per la scarpata accanto ad un segnale di fermata del bus, saliamo per timide tracce di un sentiero ed inoltrandoci nel bosco seguiamo pochi metri più in basso la cresta tondeggiante che rimane alla nostra destra. I colori del bosco sono entusiasmanti; gli alberi sono ancora carichi di foglie, protetti come sono dai venti dell’est da ben tre dorsali di montagne. Uscendo dal bosco in cresta dopo una ventina di minuti, subiamo il primo affaccio verso il Monte Meta, ancora affogato nelle rocciose creste di Torretta Paradiso e per questo ancora modesto nei suoi contorni. Riprendiamo abbandonando la dorsale e tagliando il ripido pendio verso nord; le pendenze non diminuiscono gran che, non danno tregua e solo la scelta di traiettorie trasversali ci risparmiano una affannosa apnea. Le montagne saranno pure modeste ma l’attacco è di quelli fastidiosi e senza sosta. L’affaccio verso la valle è grandioso, lo sguardo si dirige lontano, fino a Sora, fino all’accuminato profilo del Cornacchia. Decidiamo di entrare in una valle boscosa, qui ormai priva di foglie, che si insinua tra i due promontori che ci dominano, la direzione è sempre quella dettata dalla carta, verso Nord, le nostre montagne non sono ancora visibili, siamo troppo in basso e proprio prima di entrare nel bosco incrociamo una ampia carrareccia ed una grossa jeep piena zeppa di cacciatori. Lo stupore è tanto, siamo fuori dal parco ma in piena zona di divieto di caccia, ma la scena è di quella già viste. Non prendiamo la strada incrociata, si dirige in direzione opposta alla nostra e prendiamo a salire all’interno del bosco; un bosco ormai spoglio ma affascinante perché rado e ben curato. I colori sono tenui, gli alberi hanno radici importanti il sottobosco è di quelli morbidi, fruscianti, coperto interamente delle foglie appena cadute. Dopo un strappo corto ma deciso incrociamo di nuovo la strada, questa volta nella nostra direzione; la seguiamo e ci serve per tirare il fiato. Un paio di curve e siamo già al limitare del bosco: in uno scenario strano ma affascinante. Il suolo è dominato da rocce sporgenti ovunque, ora accuminate ora scavate e levigate. La strada continua ancora e sempre verso nord; continuiamo a seguirla per un lungo tratto. Incontriamo un cacciatore, poi un altro e ci fermiamo a parlare. Ci consiglia di abbandonare la strada e di prendere a salire; sopra ci sono due bei laghetti e noi abbagliati da visioni alpine ci inerpichiamo decisi e speranzosi. A dire il vero ci da anche un altro suggerimento quando indicando una montagna che si intravede davanti a noi mi sconfessa e pone i nostri obiettivi più a sud di quella indicata. La prendiamo a ridere quando i laghetti non sono altro che pozze marscecenti abbeveratoi e altro di una branco di cavalli che pascolano in zona e quando quella montagna indicata ci accorgiamo essere proprio la nostra Cima di Bellaveduta. Come recitava quel proverbio a proposito di chi fa da se? Comunque il suggerimento un lato positivo lo aveva; la cresta raggiunta aveva un affaccio spettacolare sulla dorsale che dal Petroso corre fino al Monte Meta. Sotto si incunea la Val Canneto, profonda e stretta ma non c’è vista ne del laghetto e nemmeno el fiume. Sostiamo, nonostante i settecento metri di dislivello coperti è la prima fermata mangereccia. Non stacciamo mai gli occhi dalla cresta di fronte; Luca è già li col pensiero e a nulla vale che la zona sia proibita; sta già programmando una sortita nella prossima primavera. Sostiamo molto, la temperatura dell’aria è affascinante, la calma del momento è di quella che invitano a lasciarsi rapire l’anima. Buttiamo lo sguardo avanti per capire quali siano le nostre due vette. Come è tipico di tutto il gruppo dei Marsicani e delle Mainarde l’ambiente d’alta quota è un continuo di elevazioni, una simile all’altra dove difficile è, finché non ci stai sopra, capire quale sia la cima più alta e quindi poi orizzontarsi per dare un nome alle altre. La prima elevazione che incontriamo non può essere un duemila ma decidiamo di diregerci li lo stesso. E’ un promontorio roccioso che si spinge come un naturale balcone sopra e leggermente dentro la Val Canneto; si tratta del Guado delle Capre. La vetta e tutta la zona intorno che attraversiamo per arrivarci è di una conformazione interessante e quasi unica. Una distesa di rocce bianche affioranti, forate, scavate, levigate a formare un grandioso labirinto; nel mezzo, proprio sotto la cima di questo promontorio un anfiteatro naturale, una conca erbosa che si accendeva di un verde brillante in contrasto col bianco delle rocce e l’azzurro del cielo. Luogo isolato dal mondo, una depressione d’alta quota che faceva sparire ogni presenza di montagne limitrofe. Incatevole e sperduto luogo di montagna. Ci arrampichiamo fino in cima, lo sguardo sotto e davanti è imponente, il Tartato sembra di toccarlo e ancora più profonda sembra la valle. Ora è evidente quali siano Rocca Altiera e Cima di Bellaveduta, rispettivamente cento e centocinquanta metri più in alto e più a Nord ovest di circa un chilometro la prima e due la seconda. Percorriamo una cresta sinuosa prima a scendere e poi di nuovo a salire sempre in mezzo ad un dedalo di rocce e sempre a sfiorare la verticalità del versante est dominata da zone ampie e franose fino al limitare del bosco. Sono le 10,15 quando raggiungiamo i 2018 metri di Rocca Altiera. Una vetta poco pronunciata in uno sconfinato mare di cime poco più basse. Cima di Bellaveduta è ad un chilometro verso nord, sulla stessa cresta che ora piega leggermente ad ovest e che raggiungiamo tre quarti d’ora più tardi. Il perché del toponimo è più che mai chiaro una volta calcata la sommità. La vista è a 360 gradi, la montagna un balcone naturale sulla valle sottostante, sulla Serra di Materazzo, sul Marsicano e sulla Serra di Chiarano. Anche il Greco e dietro ancora leggermente imbiancata la Majella si fanno riconoscere. Bella, davvero bella e suggestiva la vista da questo belvedere. Ci fermiamo stupiti di come la giornata possa regalarci ancora quel tepore e quella calma davvero insoliti per un periodo così avanzato. Ce li godiamo a zonzo per l’ampia vetta, a caccia di scorci, di momenti preziosi, di foto, immagini da poter ricordare domani quando gli Appennini saranno lontani. Chissà se riusciremo mai a ricordare la piacevolezza e il tepore dell’atmosfera di quei momenti? La discesa è per la stessa via, leggermente discosti dalle creste e attraverso scenari rocciosi al limite del lunare se non fosse per il verde spavaldo ed il cielo azzurro. Ogni tanto incorniciati in scenari rocciosi sporgevano verso il cielo il Meta e il Petroso quasi a volerci sfidare e a voler ipnotizzare Luca in una sorta di richiamo delle Sirene. Velocemente riguadagniamo la carrareccia, passiamo accanto alle antenne di chissà quale gestore telefonico (a dire il vero sempre più popolate sono le nostre montagne di questi totem dell’era moderna) e ci rificchiamo dentro il bosco. Ora la luce che filtra attraverso i rami spogli rende ancora più magica ed affascinante l’atmosfera. Per gustarci tanta magia, nonostante avessimo pianificato una puntata in trattoria decidiamo per un pò di seguire la strada e di rallentare. I colori sono tenui, ammaliatori; le foglie a terra dannno la dominante del marrone, le cortecce biancastre segnano il blu del cielo con decise linee verticali, non possiamo che fermarci di tanto in tanto per perderci in quell’atmosfera rarefatta e nel frastuono del silenzio che avevamo intorno. Incantevoli istanti. Seguiamo per un po’ la strada immersi nel bosco finchè questa puntando decisamente verso sud in un fianco sempre più ripido della montagna non ci induce a tagliare in verticale il pendio. Incrociamo la strada altre tre volte e per un tratto la seguiamo ancora fino alla dorsale sud che contiene la nostra valle di arrivo. La seguiamo scendendo in linea retta verso il Balzo di Canneto, inconfondibile promontorio ancora coperto di un rosso vivo della vegetazione che contraddistingue il nostro punto di arrivo. A veloci passi scendiamo di quota e solo il tempo di ammirare il giallo ammiccante e dorato delle foglie di alcuni aceri montani che alle 13 precise smontiamo gli zaini dalle spalle. Non rimaneva che darci una sistemata sudati e accaldati come eravamo ed andare alla ricerca di una trattoria che chiudesse degnamente la giornata. Il desiderio era di arrivare fino a Forca d’Acero, alla trattoria del passo, luogo di ristoro conosciuto e “certificato”, ma il fascino di San Donato in Val Comino ha vinto sulla nostra misantropia. Attraversando le incantevoli strette vie di questo paese di montagna la voglia di fermarsi a respirare l’atmosfera ci ha condotto in una piazzetta; alcune panchine, un faggio colossale davanti ad alcuni bar ben arredati e le scalette che conducevano ad una rustico ingresso di una trattoria. Il resto è stato arrosto misto, arrosticini e patate annaffiate da un buon rosso locale e una bella chiacchiarata tra due amici che avevano condiviso una semplice e per questo preziosa giornata all’aria aperta. L’insegnamento è sempre lo stesso; non occorre chiamarsi Corno Grande o Velino, ogni montagna, anche quella più banale all’apparenza, se vissuta nella giusta dimensione sa regalarti momenti unici e preziosi che altrove non riusciresti mai a vivere.